Biodiversità
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Le opere di ingegneria naturalistica, con l'utilizzo di materiale vivente, hanno in sé il rischio potenziale di diffondere entità vegetali estranee al popolamento originario dei territori di pregio ambientale.
Per scongiurare il pericolo di sconvolgere, in modo inconsapevole, i delicati equilibri degli ecosistemi naturali e seminaturali, il Parco ha elaborato alcuni criteri ed indirizzi pratici per la conservazione della biodiversità da utilizzare nella progettazione di opere di ingegneria nell'area colpita dagli eventi alluvionali del 19 giugno 1996.
Conservazione della diversità biologica
E' indubbio che le aree naturali protette e quelle ad elevato valore ambientale meritino una maggiore attenzione riguardo all'uso degli organismi vegetali nelle opere e negli interventi di ingegneria naturalistica, i quali debbono sottostare ad una serie di azioni di tutela, che consenta, nei fatti, un corretto impiego di alberi, arbusti ed erbe, oltre alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali in cui i vegetali vanno ad inserirsi.
I criteri e gli indirizzi operativi, più avanti definiti, traggono ispirazione dai princìpi fondamentali della “Convenzione sulla diversità biologica” - firmata a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992. Si ricorda che tale atto costituisce, in assoluto, il primo esempio di approccio globale alla conservazione e all'uso sostenibile della natura e delle sue risorse.
Riguardo all'ingegneria naturalistica, analoghi obiettivi della “Convenzione” vengono principalmente perseguiti attraverso l'utilizzo esclusivo e controllato di specie vegetali autoctone, nelle loro espressioni ecotipiche locali, anche al fine di valorizzarne le intrinseche potenzialità adattative, impedendo - nel contempo - l'introduzione e la diffusione di entità estranee al popolamento floristico originario del territorio.
Il quadro normativo che sostiene questa indicazione prescrittiva e vincolistica, discende fondamentalmente dalla legge quadro sulle aree protette - la n. 394/91 (art. 11, comma 3, lettera a) - la quale vieta nei parchi e nelle riserve “l'introduzione di specie estranee, animali e vegetali, che possano alterare l'equilibrio naturale”, al fine di garantire e promuovere proprio la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale. Analoghe indicazioni sono pure contenute nella legge n. 124/94 che ratifica e dà esecuzione alla citata “Convenzione di Rio”, indicando specificamente al suo art. 8 (dedicato alla conservazione in situ), la regolamentazione e la gestione delle risorse biologiche rilevanti per la conservazione della diversità sia all'interno che all'esterno delle zone protette, in vista di assicurare la loro conservazione ed il loro uso durevole.
Lo stesso articolo promuove la protezione degli ecosistemi, degli habitat naturali e del mantenimento delle popolazioni vitali di specie negli ambienti naturali, ma principalmente vieta l'introduzione di specie esotiche che minacciano gli ecosistemi, gli habitat e le entità originarie.
Ancora l'art. 14 della 124/94 impone di adottare procedure appropriate ai fini dell'ottenimento di valutazioni degli impatti sull'ambiente, relativamente alle progettazioni da porre in essere, soprattutto quando sono “suscettibili di avere effetti negativi rilevanti sulla diversità biologica”.
Criteri ed indirizzi pratici per la conservazione
I princìpi di conservazione fino ad ora enunciati possono correttamente applicarsi seguendo con attenzione alcune indicazioni pratiche nel momento in cui ci si appresta ad impiegare organismi vegetali per opere ed interventi di ingegneria naturalistica. Quanto segue è soprattutto riferito alle aree ad elevato valore ambientale, anche se sarebbe buona norma estendere l'efficacia di ciò anche ai territori non protetti. D'altra parte, i parchi e le riserve sono zone elettive di sperimentazione diffusa, utili ad affinare nuovi metodi e tecniche di uso durevole delle risorse rinnovabili, per poi esportare i risultati delle esperienze condotte pure al di fuori di questi territori speciali.
Prima di enunciare, nel ”decalogo” che segue, i criteri e gli indirizzi pratici per la conservazione, è indispensabile una premessa metodologica. In ogni intervento di ripristino ambientale, la fase progettuale, definitiva ed esecutiva, deve essere preceduta da un'analisi stazionale mirata a definire la tipologia del degrado determinatosi, a cui affiancare uno studio sulla dinamica della vegetazione in un ampio intorno rispetto al dissesto preso in considerazione. A questa analisi, va affiancato una studio floristico conoscitivo di dettaglio, meglio se condotto con approfondimenti originali sul campo e, quanto meno sostenuto, da una ricerca bibliografica aggiornata e, possibilmente, estesa ai campioni e ai dati d'erbario:
1) realizzazione di mosaici ambientali e pluralità d'habitat
La scelta di una certa successione di vegetazione, attraverso interventi di ingegneria naturalistica, se da un lato deve essere coerente con i lineamenti vegetazionali del territorio protetto, dall'altro è chiamata a realizzare “cambi”, “rotture” e mosaici di paesaggio vegetale. E preferibile stabilire una pluralità ambientale rispetto all'intorno piuttosto che riproporre, sic et simpliciter, omologie.
E notorio che il massimo di diversità biologica (sia floristica che faunistica) si realizzi proprio in presenza/conseguenza di un massimo di diversità di habitat contigui, tra loro comunque in stretta relazione biocenotica.
2) realizzazione di livelli superiori di naturalità e complessità
Le scelte progettuali di tipologia vegetazionale devono subito definire gli stadi più evoluti possibili lungo la successione dinamica individuata, compatibilmente con le condizioni ecologiche della stazione (relativamente ai limiti stabiliti da altitudine, esposizione, acclività, tipo suolo, ecc.).
Tutto questo serve ad orientare il successivo sviluppo delle formazioni/associazioni verso condizioni climax, o comunque stabilire da subito situazioni di copertura vegetale con livelli superiori di naturalità e complessità. In effetti, le aree naturali protette richiedono sempre soluzioni estreme di “qualità”, anche se più difficili ed onerose per i costi d'impianto e di prima manutenzione.
3) realizzazione del massimo livello possibile di diversità floristica
Va dato per scontato che una selezione di entità vegetali da impiegare, nello specifico di un intervento di ingegneria naturalistica, risponda efficacemente alle condizioni ecologiche richieste dalla stazione e sia dotata delle più idonee caratteristiche biotecniche per quel sito.
Sebbene ciò comporti una forte selezione di taxa impiegabili, le scelte progettuali devono tendere alla realizzazione della maggiore diversità biologica, da intendersi qui sia in termini di composizione floristica (come maggior numero di specie), sia in termini di fisionomia della vegetazione (come maggior numero di forme e sottoforme biologiche).
4) esclusione dei taxa non appartenenti alla flora locale
Gli elenchi floristici di un'area protetta (meglio se riferiti ad una parte non molto estesa) forniscono indicazioni utili a sbozzare un primo insieme, ancora grezzo, di entità suscettibili di utilizzo nei ripristini ambientali.
Gli stessi elenchi permettono, più nettamente, di escludere a priori (e con relativa difficoltà) tutti i taxa estranei al popolamento floristico originario del territorio, restringendo il campo delle specie e sottospecie da ricercare ed impiegare.
5) esclusione dei taxa ad ampia distribuzione
Al criterio netto dell'appartenenza alla flora locale, segue l'indirizzo della preferenza verso entità caratterizzate da tipologia corologica meno estesa possibile (con areale di distribuzione più ristretto). In ogni caso, sono da evitare le piante avventizie (naturalizzate e non), le cosmopolite e le subcosmopolite e, comunque, il vasto gruppo delle sinantropiche.
Il fine evidente è quello di proporre quadri ambientali e paesaggi naturali non generici e ricorrenti, ma quanto più caratterizzati e diversificati in senso floristico regionale, dato che questo valore, essendo anche morfologico oltre che genetico, è immediatamente apprezzabile e rende un valore aggiunto immediato al patrimonio naturalistico di un'area protetta.
6) esclusione dei taxa inseriti nelle “red list”
Ragioni più che ovvie di tutela e conservazione - tali da porre limiti concreti all'applicazione del precedente criterio - suggeriscono di evitare l'uso di specie e sottospecie (spesso endemiche, subendemiche o relitte), che trovano posto nelle “liste rosse” compilate secondo i criteri dettati dall'I.U.C.N. (1994). Sono soprattutto le categorie che esprimono un maggior rischio di estinzione - e corrispondenti alle denominazioni di “gravemente minacciato” (CR), “minacciato” (EN) e “vulnerabile” (VU) - a sconsigliare l'uso dei taxa inseriti nei loro stessi elenchi.
In altre parole, bisogna evitare che l'ingegneria naturalistica - pur condotta con i più nobili fini - possa contribuire, suo malgrado, alla rarefazione e scomparsa della flora spontanea.
7) provenienza autoctona dei materiali vegetali
Abbiamo già detto e argomentato come sia assolutamente da scoraggiare (se non proibire con idonei provvedimenti) l'impiego di semi o parti vegetative di piante non raccolte in loco, anche se appartenenti a specie e sottospecie nominalmente descritte nella flora del territorio. Questo principio vale per qualsiasi tipo di intervento forestale e quindi è applicabile, in pieno, al campo dell'ingegneria naturalistica.
In particolare, sono da escludersi:
- i materiali alloctoni provenienti da vivai o strutture similari non specializzati per la flora locale, tenuto conto che, soprattutto nelle aree protette, l'utilizzo di vegetali, con provenienza esterna ai confini o comunque incerta, costituisce una minaccia all'integrità degli ecosistemi e può indurre modificazioni future sulla variabilità delle popolazioni autoctone.
- l'introduzione e la reintroduzione di taxa, oggi assenti per ragioni epiontologiche o altro, anche nel caso di trasferimento di materiale da un settore ad un altro della stessa area protetta.
8) prelievo limitato in natura dei materiali vegetali
Per quanto attiene la scelta del materiale vivente da utilizzare per gli interventi di ingegneria naturalistica è opportuno limitare allo stretto necessario il prelievo in natura dei vegetali, secondo le seguenti indicazioni d'ordine generale:
- quando si effettuano ricerche in loco di semi, non se ne devono raccogliere più del 10 % del totale prodotto in una stagione da una popolazione e con percentuali ancora minori se il gruppo d'individui vegeta accantonato in stazioni isolate. L'obiettivo è di non mettere a repentaglio la sopravvivenza di questi nuclei naturali.
- quando si effettuano raccolte di interi individui, è opportuno non praticare prelievi quando il numero delle stazioni conosciute in loco, per una certa entità tassonomica, assumano minima espressione. Inoltre, non bisogna mai contrarre una popolazione vegetale (in una determinata stazione) al di sotto della soglia della minima dimensione effettiva di 500 individui maturi. Tali precauzioni risultano necessarie al fine di assicurare una base genetica sufficientemente ampia per le popolazioni naturali (soprattutto se appartenenti a specie allogame), in quanto condizione primaria di preservazione della variabilità e di potenzialità per una continua evoluzione.
quando si effettuano prelievi di parti di individui, con lo scopo di favorire la propagazione attraverso talee, astoni, rizomi, ecc., è necessario limitare il numero di asportazioni per soggetto, con il fine di non ridurre le “piante madri” in uno stato vegetativo di immediata o successiva deperienza e quindi limitarne o perfino annullarne la vitalità.
9) ricerca della massima variabilità nelle popolazioni insediate ex novo
Gli interventi di ingegneria naturalistica creano talvolta nuove stazioni di popolazioni vegetali in cui deve esistere e mantenersi una certa variabilità biologica, utile a fronteggiare evenienze ambientali e garantire un continuo sviluppo evolutivo.
Le nuove stazioni insediate attraverso semina e impianto di individui completi assicurano, almeno in teoria, una certa variabilità di popolazione appartenente allo stesso taxon. Nel caso di propagazione vegetativa è necessario prelevare talee, astoni, rizomi o quantaltro, da individui diversi, magari anche spazialmente distanti tra di loro nelle stazioni di prelievo (in modo da evitare la formazione di popolazioni di cloni), tenendo conto anche della presenza di esemplari con fiori sia delluno che dell'altro sesso, nel caso di utilizzo di specie dioiche (es. Salix).
10) mantenimento corretto del materiale raccolto a garanzia della variabilità
Una volta che il materiale è stato raccolto con successo - trattandosi esso di semi, parti o di interi individui - lo stesso deve essere mantenuto o immagazzinato in modo tale da non perdere o diminuire la variazione genetica contenuta nei campioni. L'inadeguata conservazione dei semi, nonché gli stress idrici, termici, ecc. - subiti da parti od individui vegetali nel caso in cui si tardasse nel porli a dimora - sono spesso causa di minore germinabilità o di fallanze negli impianti, che riducono la diversità biologica nelle nuove stazioni insediate.
La necessità di reperire materiale vegetale idoneo agli interventi di ingegneria naturalistica, oltre che di sicura provenienza ed origine autoctona, ha spinto il Parco ad elaborare un progetto di ricerca per la selezione di cloni locali, provenienti da diverse popolazioni di salici (Salix sp. pl.), con il fine di misurare la loro differente capacità di attecchimento, attraverso tecniche tradizionali di propagazione vegetativa (talee e astoni).
La ricerca è stata condotta dal Servizio "Ricerca e Conservazione" del Parco in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali Forestali dell'Università degli Studi di Firenze.
Tali indicazioni sono state recepite nella Convenzione, stipulata il 7 settembre 1999, tra il Parco e la Comunità Montana della Garfagnana, in un quadro più ampio di "azioni connesse alla conservazione del patrimonio genetico vegetale", da svilupparsi presso il Vivaio forestale di Camporgiano (Lucca).